IL GENITORE CHE PUBBLICA FOTOGRAFIE DEL FIGLIO MINORE E’ PASSIBILE ANCHE DI SANZIONI PECUNIARIE

Con l’ordinanza del 23/12/2017 il Tribunale di Roma ha stabilito che non solo il giudice può ordinare la rimozione delle immagini, ma anche il pagamento di una somma di denaro in favore dei figli. Si tratta di un precedente unico in Italia che detta un principio di diritto forte a tutela dei minori; tuttavia sono già molte le decisioni che hanno costretto i genitori a disattivare i profili Facebook dei figli o a rimuoverne le foto pubblicate nelle proprie pagine social o persino sul profilo Whatsapp. Tanto che le disposizioni che regolano la gestione pubblica dell’immagine dei minori ora entrano anche nelle condizioni per separazioni e divorzi.

Tale caso però non è isolato: già a settembre 2017 il tribunale di Mantova ha ordinato a una madre di non inserire sui social network le foto dei figli e di rimuovere contestualmente quelle già pubblicate e nel 2013 il tribunale di Livorno aveva prescritto la disattivazione di un profilo Facebook aperto dai genitori a nome della figlia minore imponendo l’eliminazione delle foto dal suo profilo».

Il fondamento giuridico che sottende al divieto e all’ordine di rimozione delle foto pubblicate è contenuto nell’articolo 96 L. n. 633/1941 – la legge sul diritto d’autore – secondo la quale il ritratto di una soggetto non può essere diffuso senza il suo consenso, e nel D. Lgs. n. 196/2003 in materia di trattamento dei dati personali.

Nel caso di minori, inoltre, l’ordinanza afferma che «La fotografia è un dato personale e non può essere diffusa se non vi è l’autorizzazione dell’interessato. In più, i minori godono di una tutela maggiore che trova le sue basi nell’articolo 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989».

Se poi si considerano gli artt. 147 e 357 del codice civile, in cui si legge che chi esercita la potestà genitoriale ha un connaturale dovere di cura e di educazione nei confronti dei figli che oggigiorno può essere esteso anche al corretto uso dell’immagine del minore, si comprende bene il perché del divieto e dell’ordine di rimozione contenuti nell’ordinanza citata.

E quindi, se i genitori disattendono questi doveri, possono essere richiamati dal giudice anche attraverso sanzioni.

ADOZIONE E AFFIDAMENTO: la continuità affettiva riconosciuta dalla L. n. 173/2015

La Legge 19 ottobre 2015, n. 173, diretta a modificare la L. 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozioni, riconosce un importante principio, ovvero il diritto alla continuità dei rapporti affettivi dei minori in affido familiare. E’ composta da quattro articoli, incentrati sul diritto dei minori in affido familiare alla continuità affettiva.

All’art. 1 sono inseriti tre nuovi commi: 5-bis, 5-ter e 5-quater. Nello specifico, il comma 5-bis, prevede che, qualora la famiglia affidataria chieda di poter adottare il minore, il tribunale per i minorenni nel decidere sull’adozione, dovrà considerare i legami affettivi ed il rapporto consolidato tra il minore e la famiglia affidataria. E’ quindi sancita una tutela alle relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento anche quando, dopo un periodo di affidamento, il minore torni  nella famiglia di origine o venga affidato oppure adottato da altra famiglia. Il comma 5-quater stabilisce che il giudice, nel decidere sull’adozione del minore, dovrà tener presente le valutazioni dei servizi sociali, ascoltando il minore di dodici anni, o di età inferiore, “se capace di discernimento”.

L’art. 2 introduce un’ipotesi di nullità, precedentemente non contemplata, nel caso in cui la famiglia affidataria o collocataria, non venga consultata,  nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità del minore affidato.

 

L’art. 3 aggiunge il comma 1-bis al comma 1 dell’articolo 25 della legge 4 maggio 1983, n. 184, prevedendo l’applicazione della procedura per la dichiarazione di adottabilità anche all’ipotesi di prolungato periodo di affidamento del minore.

Infine, l’art. 4 introduce la possibilità di adozione del minore orfano di entrambi i genitori non solo da parte di “persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo” ma l’adozione è consentita anche da parte di chi, pur non essendo legato da parentela, abbia maturato una relazione continuativa con il minore, nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento.

L’AZIONE DI RICONOSCIMENTO DI PATERNITA’ O MATERNITA’ (NATURALE)

Se da una relazione tra due persone non unite in matrimonio nasce un figlio che non viene riconosciuto da uno dei due genitori naturali, che rimedi ci sono?

A norma dell’art. 269 del codice civile “La paternità e la maternità naturale possono essere giudizialmente dichiarate, nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo…; la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità”.

Nel nostro ordinamento quindi se il figlio nato fuori dal matrimonio non è riconosciuto alla nascita da uno dei genitori naturali si può promuovere un’azione davanti al Tribunale per ottenere una sentenza dichiarativa della filiazione. Questa sentenza ha gli stessi effetti del riconoscimento.

Al di là della maggiore o minore età del figlio, la competenza a decidere è del Tribunale ordinario. Naturalmente il Tribunale per i Minorenni rimane competente per tutte le questioni inerenti l’adozione, la tutela del minore, i casi di decadenza dalla potestà o di condotte pregiudizievoli per il minore poste in essere da uno o da entrambi i genitori.

L’azione di riconoscimento della paternità o maternità (naturale) può essere proposta dalla persona che esercita la potestà sul minore, che può essere la madre (o il padre) oppure il tutore: quest’ultimo però ha l’obbligo di chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare prima di agire in giudizio. Inoltre l’azione è subordinata al consenso del figlio minore se questi ha compiuto i sedici anni di età.

Tale azione è peraltro imprescrittibile e questo significa che può essere promossa in qualunque momento e anche dopo anni dalla nascita, visto che la legge non pone alcun limite di tempo per agire in giudizio.

 

 

UNIONI CIVILI E COGNOME COMUNE

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 212/2018, ha confermato la legittimità dell’articolo 3 d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 5, ossia ha stabilito che la scelta del cognome comune tra le parti di un’unione civile non ha una funzione anagrafica e, pertanto, nella relativa scheda, permane il cognome precedente alla costituzione della stessa.

Il caso riguarda una coppia unita civilmente, che aveva scelto un cognome comune, annotandolo su atti di nascita e documenti. In forza degli artt. 3, lett. c), n. 2), e 8 del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, detto cognome è stato cancellato d’ufficio.

Usando le parole della stessa Corte: “Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali. L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega”.

La Corte ha poi richiamato il principio dell’ordinamento dello stato civile, secondo cui il cognome d’uso assunto dalla moglie, non comporta alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane invariato.

I FIGLI VANNO MANTENUTI ANCHE DAL GENITORE DISOCCUPATO

Corte di Cassazione VI Sez. Penale – Sentenza n. 34952/2018 del 4/07/2018

La sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha esaminato il caso di un uomo, un 35enne disoccupato, che è stato condannato per non aver provveduto al mantenimento della figlia. L’uomo si è difeso sostenendo di non aver mai avuto alcun reddito e di aver preso un accordo con la madre in cui avevano stabilito una cifra di cinquanta euro mensili. Ciononostante la Corte ha chiarito che sono nulli gli accordi presi dai genitori sui mezzi di sussistenza ai figli se non vengono controllati e omologati dal giudice, trattandosi di una materia su cui non vi è libera autonomia delle parti. Inoltre, ha precisato che “la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta “in re ipsa” una condizione soggettiva dello stato di bisogno che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza; il reato sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore.”

Ritenuto, dunque, integrato il reato contestato poichè l’imputato non ha mai adempiuto all’obbligo contributivo in favore della figlia minore, pur avendo svolto saltuariamente attività lavorativa, la Corte ha anche deciso di non concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena per la reiterazione della condotta.

Conclude la Cassazione che “In tema di sospensione condizionale della pena, il diniego della concessione del beneficio può essere motivato, in ipotesi di reato permanente, con riferimento alla persistenza della condotta criminosa là dove i profili fattuali della vicenda siano di tale pregnanza da sorreggere una siffatta motivazione“.

Secondo la Corte d’Appello, infatti, in secondo grado il beneficio era stato negato poiché l’imputato ha tenuto per anni una condotta di totale disinteresse, morale e materiale, per la figlia minore.

  

 

LA RIFORMA DELL’AFFIDO CONDIVISO NEL DDL PILLON

Il Disegno di Legge Pillon, che prevede di apportare modifiche alla normativa su affidamento dei figli in caso di separazione o divorzio, apporterebbe al sistema giuridico della famiglia varie novità.

La prima, l’affido condiviso pensato in modo più equo (di quello attuale) tra i genitori: la condivisione tra madre e padre sarebbe questione non solamente rilevante in termini di tempo, ma anche di denaro. Quanto alla c.d. “bigenitorialità perfetta”, si prevede che in caso di separazione di una coppia, il mantenimento dei figli, il loro affido, e di conseguenza i costi e il tempo passato con loro, devono essere equamente divisi tra padre e madre.” Indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori, il figlio minore, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e con la madre, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali, con paritetica assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità. Ha anche il diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale”, si legge all’articolo 11. Il giudice deve assicurare il diritto del minore di trascorrere “tempi paritetici in ragione della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori. Salvo diverso accordo tra le parti, deve in ogni caso essere garantita alla prole la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre”, si legge ancora.

La seconda novità riguarda l’assegno di mantenimento, non più a carico del genitore non residente prevalentemente col minore, ma a carico di entrambi i genitori in forza di una perfetta “bigenitorialità”. Sparirebbe inoltre la cifra forfettaria stabilita automaticamente, sostituita da un assegno calcolato ad hoc sui figli e sul progetto che i genitori hanno su di loro. La cifra stabilita sarà poi divisa equamente tra i genitori, in base a quanto guadagnano.

Terza novità: l’obbligo di mediazione  familiare  nel caso in cui i genitori del minore non trovino un accordo per evitare di finire a discuterne in tribunale. Chi come me crede nella mediazione familiare non può che apprezzare lo sforzo di dare regole mancanti dal lontano 2006. Sul punto, più nello specifico l’art. 1 tratta dell’istituzione dell’albo professionale dei mediatori familiari, figure professionali obbligatorie con il compito di valutare i rispettivi piani genitoriali e assumere con ordinanza i provvedimenti che reputano opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi secondo quanto previsto dal codice civile. Si legge poi che il mediatore familiare dovrà motivare le proprie decisioni nel caso in cui ritenga di discostarsi dalle indicazioni della madre o del padre del minore in ordine al piano genitoriale.

Quarta novità: il ddl Pillon con l’art. 12 si propone di contrastare il fenomeno dell’alienazione genitoriale: “Nelle situazioni di crisi familiare il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato con la concreta esclusione di uno dei genitori (il più delle volte il padre) dalla vita dei figli e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore”.

Tra molte polemiche, vedremo se diventerà legge.

LA MEDIAZIONE CIVILE NEI CONFLITTI FAMILIARI

Si discute di A.D.R., alla luce del Decreto Pillon, foriero di critiche e plausi, e di pratiche innovative a cui in molto Paesi si ricorre come la Pratica Collaborativa.

Locandina convegno PADOVA 19.10.2018

Padova 15 ottobre 2018 – La Pratica Collaborativa si presenta

Negoziazione Collaborativa:
un modo nuovo per risolvere i conflitti attraverso la multidisciplinarità

Gestire i conflitti è oggi una necessità anche nell’attività professionale.
La Negoziazione Collaborativa propone un modo nuovo per accompagnare le parti ad una
soluzione condivisa e coerente con le loro aspettative.
Questo è possibile anche grazie ad un’efficace collaborazione tra Professionisti di ambiti diversi
che affrontano il problema lavorando a stretto contatto tra loro.
Ridurre la durata dei conflitti, evitare ove possibile di affrontare sfinenti ed insoddisfacenti cause
in Tribunale, trovare soluzioni a misura delle parti, sono gli obiettivi della Pratica Collaborativa,
collaudata in ambito familiare e con potenzialità di sviluppo in diversi contesti, sia del diritto civile
che del diritto commerciale.
Avvocati, Commercialisti ed Esperti di relazioni metteranno alla prova le potenzialità della
rivoluzionaria modalità di risoluzione dei conflitti, confrontandosi con i Professionisti formati alla
Pratica Collaborativa.

Locandina-Evento-Padova

Conversazioni sul volume “Pratica Collaborativa. Dialogo fra teoria e prassi” a cura di Marco Sala e Cristina Menichino

La Pratica Collaborativa:
un metodo di ADR
Conversazioni sul volume
“Pratica Collaborativa. Dialogo fra teoria e prassi”,
a cura di Marco Sala e Cristina Menichino, Torino, Utet, 2017
presso la Facoltà di Giurisprudenza, Trento, via Verdi 53 – Sala conferenze
Venerdì 19 ottobre 2018

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